Quando, meditante alle prime armi, ho partecipato al protocollo MBSR prima e a un ritiro silenzioso buddista poi, l’equanimità era per me uno dei concetti più oscuri. Eppure, mi rendevo conto che andava assolutamente coltivata, perché è considerata l’antidoto alle 2 principali cause di sofferenza negli esseri umani: attaccamento e avversione, concetti invece che mi erano ben troppo familiari. Ora invece mi piace arricchire la definizione piuttosto scarna che ne danno la maggior parte dei dizionari – imparzialità, equità, giustizia, serenità d’animo – con le qualità e gli atteggiamenti su cui si fonda l’approccio consapevole: compassione, gentilezza amorevole, apertura, fiducia, non-resistenza.

E non si prenda tutto questo come una prospettiva passiva e rassegnata di fronte alle difficoltà della vita, al contrario: è la sola base su cui può fondarsi la resilienza, la cura per noi stessi e gli altri, e la felicità stessa, intesa appunto come capacità di stare con ciò che c’è e fare quanto più possiamo per apprezzarlo.

Ma questa descrizione piuttosto concettuale trova per fortuna un riscontro molto più concreto e immediato in innumerevoli racconti che ci illustrano quanto illusori siano i nostri giudizi e le nostre aspettative – la fortuna, la sfortuna, ciò che è buono per noi o meno, ciò che quindi è giusto desiderare e perfino come essere vicini agli altri in queste situazioni.

Vi riporto qui uno dei miei preferiti, a cui ritorno spesso quando la mente urla “non è giusto” di fronte a quelle che considero cose andate storte, aspettative deluse, ingiustizie della vita o per cui incolpare gli altri, o meglio ancora me stessa. Vi faccio un invito: leggiamolo ogni qualvolta sentiamo che può ricentrarci, magari anche chiedendoci: forse mi sto perdendo qualcosa chiudendomi in questo giudizio/resistenza/attaccamento/avversione/pensiero fisso e così via, che potrei avere lasciando aperto il cuore – in altre parole, adottando un atteggiamento equanime? Forse sì, forse no, ma vale la pena di provare.

C’era una volta un povero contadino che poteva permettersi solo un cavallo. L’uomo lo trattava con cura, ma una notte d’estate, il cavallo trovò un punto debole nel recinto e fuggì. Quando i vicini seppero dell’accaduto, andarono dal contadino per manifestargli il loro rammarico. “Che sfortuna”, dissero. Al che l’uomo rispose: “Forse si, forse no”.

Di lì a una settimana, il cavallo tornò alla fattoria con altri sei cavalli selvaggi al seguito. Il contadino e suo figlio riuscirono a rinchiuderli tutti e sette nel recinto. Di nuovo vennero i vicini in visita. “Che gran fortuna”, dissero. Al che l’uomo rispose: “Forse si, forse no”.

Il figlio del contadino iniziò subito a domare i nuovi arrivati. Mentre tentava di cavalcare lo stallone roano, fu sbalzato violentemente a terra e finì quasi calpestato, rompendosi una gamba. I vicini accorsero. “Che sfortuna terribile”, dissero. Al che l’uomo rispose: “Forse si, forse no”.

Il giorno seguente arrivarono al villaggio dei soldati. Due signori della guerra erano in lotta fra loro e uno aveva ordinato l’arruolamento forzato di tutti i maschi giovani del villaggio. A causa della gamba rotta, il figlio del contadino fu il solo a non dover partire per il fronte. Di nuovo, i vicini accorsero. “Che incredibile fortuna”, dissero. Al che l’uomo rispose: “Forse si, forse no”.