Un bue un asino. Una stalla; la mangiatoia. Lei partorisce lì.
Anche lei è un animale, sì certo, è una donna. Animali, siamo.
Il nostro verso è la Parola. Sussurrata gridata lanciata come una freccia lontano fatta cadere a cinque centimetri dal tuo orecchio, è il mio Verso ed è il tuo ed è quello di lei e dell’uomo che le è vicino. Lui non sa bene cosa fare, sta nell’imbarazzo. Fa il falegname ha una cinquantina d’anni. E’ così vecchio che invece di starsene lì a confortare la ragazzina potrebbe benissimo far chiacchiere con qualcuno a Nazareth, dove vive, ma ormai non può più tirarsi indietro. Lui quella ragazzina, Maria, l’ha voluta prendere in moglie nonostante la vergogna che si porta addosso. Un figlio illegittimo. Lui parla poco e in questi giorni anche meno, parla. C’è grande confusione di persone e di animali, è in corso un censimento, Erode se lo è sognato creando grande fatica fra gli uomini; come se non bastasse quella quotidiana. Quel bastardo.
Fa freddo la sera, la temperatura scende. Siamo nel mese di dicembre, le ore di buio sono dippiù. E col buio si fa fatica a fare tutto, anche l’asino con cui sono scesi dalla Galilea fatica a stare in piedi. Qui nella stalla riposa finalmente, ha trovato un bue. A Giuseppe è sembrata una benedizione, per il suo asino ma anche per loro due, lui e la ragazza.
Due è la più piccola unità del Sistema Numerico dell’Universo, sembra che Uno non abbia possibilità alcuna di sopravvivenza. Dell’aiuto il creato ha bisogno sempre e se lo va cercando dappertutto mosso da quella sapienza ancestrale, quella che fu dell’ameba costretta a spostarsi per fame, nel Brodo Terrestre, due miliardi di anni prima della Stalla di Betlemme. I bisogni ci spingono a cercare a noi intorno ciò che ci conserverà in vita. Non lo sappiamo a parole: l’istinto, l’intelligenza del corpo, agisce per noi come un pilota automatico. Pilota automatico, Giuseppe mi guarda perplesso attraverso i secoli e gli anni che ci separano ma io gli faccio cenno di non dare importanza che va tutto bene.
La ragazzina è stravolta, ha fame, è stanchissima e poi sente scosse elettriche dentro la pancia, tanto da bloccarle il respiro. E’ accaduto velocemente in un modo così strano direi violento che lei non ne ha parlato con nessuno, giusto con la cugina, l’anziana Elisabetta, nemmeno col vecchio che l’ha sposata. Un mistero dopo l’altro. Quell’angelo entrato durante il giorno dall’uscio di casa, una stanza in penombra di mattoni, fango e paglia, induriti dal sole, resi cuoio, suola di scarpa per proteggere il sonno la fame il silenzio che segue al lavoro, l’ha terribilmente spaventata. L’ha chiamata per nome le ha detto che sarebbe diventata madre e lei piccola come è, ha avuto da ridire. L’ombra di Dio l’avrebbe coperta che lei si affidasse. Aveva alternativa, dimmi, l’aveva. Avrebbe potuto lei così tanto giovane prendere una delle scene più vertiginose del Nuovo Testamento e buttarla via come una sceneggiatura che non funziona? No, onestamente, non avrebbe potuto. E ha accusato il colpo, quello di essere completamente espropriata della sua storia di bambina della sua vita fra le capre in Galilea, per fare spazio a quella di Dio. Che prepotente, questo qui. E adesso le tocca partorire. Ha aiutato tante volte le sue capre a far nascere i piccoli. Sa da loro la pazienza e la sofferenza della nascita. Si mette quieta, il vecchio fa di tutto perché non si spaventi, le dice qualcosa le accarezza la fronte con un panno, il sudore adesso la contiene tutta. Le sorregge la schiena. Ma lei si divincola si mette prona sta adesso a quattro zampe come tutti gli animali della stalla. Vorrebbe urlare per quanto il ventre le preme sulle natiche la colonna la schiena per quanto il dolore sia arrivato alle caviglie alle braccia alle mani, non lo fa. Non vuole spaventare l’asino, quella bestia che semina l’oro sulla Terra. Basterebbe osservare la sua mansuetudine la sua prodigiosa volontà soprattutto quando decide di mettersi di traverso. Tantomeno il bue vuole turbare vedi come se ne sta quieto, lo sente masticare, ruminare. Avverte il tonfo e l’odore della cacca. Tutto le è famigliare, tutto lei conosce di quel luogo dove tuttavia non è mai stata. Le stalle sono tutte uguali. Per odore per voci per versi per arrivi e per partenze. La nascita e la morte di un animale è simile a quella degli uomini, e delle bambine come lei.
Quando nasce non grida il bambino, ma nemmeno le capre i mici i cani, chi nasce non grida. Sospira piuttosto. Scopre così di essere figlio del vento. Cosa è questa cosa che mi brucia la bocca la gola il petto. Il primo respiro è una fiamma. La andremo a restituire anni dopo perché noi siamo staffetta. Dobbiamo portare a compimento la nostra microscopica missione terrestre. Missione di cui nulla sappiamo e di cui nulla sapremo. Moriremo senza averci capito niente. Condividendo così lo stesso destino di ogni vivente: il virus il fiore la stella. Per Gesù sarà invece una roba più impegnativa e soprattutto, tanto più drammatica per quante saranno le conseguenze che troveranno posto in due grossi volumi di storia: medioevale e moderna. Moltissime la gran parte di queste conseguenze sono state e ancora restano efferate, brutali, di una violenza psicologica e fisica che non hanno posto in queste ore nella stalla. Se Maria avesse saputo avrebbe ucciso quel bambino e sé stessa. Risparmiando il bue l’asino e Giuseppe, che c’entrano poveretti. Ma lei non seppe, come tutti noi, non seppe mai. Gesù, il figlio, pure fu travolto. E’ una storia patriarcale, questa. Ne porta le tracce dappertutto. Ma nella stalla che abbiamo costruito in questi giorni per ricordare l’evento su cui fonda la nostra cultura e dunque il sentimento della speranza che dovrebbe orientarne l’azione, noi abbiamo la possibilità più tardi, verso sera, di tenere in braccio Gesù, è appena nato quale migliore occasione per pregarlo di voltare le spalle al destino che lo aspetta. Che due capitoli di storia stanno già scritti ma noi qui stiamo lavorando alla redazione del terzo: l’età contemporanea. Maria lo insegna. Mai dire, mai.