Più di tutto amo, Ballare.
Della vita dei suoi ingranaggi mi ha sempre intimamente appassionato, coinvolto, travolto, ciò che spinge in pista: l’istante epocale di semplice libertà selvaggia gioia quando Corpo si smarca come il serpente nel Tempo della Muta. Smarcarsi dalla Mente dalla Ragione, facendo volentieri a meno della loro guardianìa. L’attimo in cui parte Musica e mi riesce, inspiegabile misteriosa via, velocissimi gli scambi fra centinaia di milioni di sinapsi, con disinvoltura affrancata da qualsivoglia senso di colpa, abbandonare vergogna e pudore e scattare in piedi; spinta da una molla sotto il sedere.
Eccomi occupare il centro della pista. Di questi istanti di assoluta grazia, perfezione, senso di appartenenza, sono stata, sono, e sarò, la fan più esagerata. La più coriacea la più fedele.
Ero bambina e sullo schermo del modesto cubo prodigioso – profilo grigio topo, cornicetta di plastica nera a contorno, tre modeste manopole a destra- fluiscono luminose in grandi quantità, copiose immagini in bianco e nero e con quelle saltano su come Pop Corn, le parole: alcune storie a puntate, i cartoni di Gatto Silvestro e Titti, il canarino. Senza tralasciare Carosello che ogni sera alle 20, in soggiorno tutti ci raduna. Talvolta si palesano pecorelle intente a brucare un’erba grigia nella campagna romana; numerose a metà degli anni sessanta sono le interruzioni di trasmissione.
Altre volte, momento d’estasi rimasto ineguagliato, ho intercettato Il Lago dei Cigni, il balletto.
Il contatto visivo con il Corpo di Ballo del Teatro di San Pietroburgo mi rende in men che non si dica, materia infiammabile: che io fossi e sono, impastata con lo zolfo? Il contatto con la Musica i tutù il galateo dei corpi elegantissimi e diafani, traslucidi, sbaraglia all’istante l’ansiosa atmosfera che respiro. Ne determina la frattura la costringe a ripiegare di lato e a ritirarsi, come una divisione irrimediabilmente sconfitta. La cella dell’infanzia quella condizione di vita coatta, viene giù in una cascata di frammenti iridescenti. Una Caporetto, insomma. Mia madre smette di gridare mia sorella di starmi addosso con la sua sovrabbondante bellezza inesauribile energia divorante inquietudine e dallo schermo, PaPaPaPAM!
Si abbassa verso di me un ponte levatoio; chiaro invito ad attraversarlo. Così mi svincolo, istante fulmineo e benedetto, dalla mia ontologica vergogna di esistere, bambina poco considerata, e senza interrogarmi sulle conseguenze, lo attraverso. Lesta.
Da noi, da me e Il Lago dei Cigni, da quelle ripetute epifanie, Spielberg ha poi copiato la famosa scena del film, Incontri ravvicinati di terzo tipo, con la variante che il ponte levatoio viene fuori dal ventre piatto di un’astronave ovale, sospesa in una radura, cinquanta metri sopra la testa di una famiglia. Ma, tralasciati questi dettagli, il resto avviene proprio come lui, lo Spielberg, ebbe ad apprendere all’epoca da me e dal cubo gracchiante su cui mio padre investì uno stipendio nella Primavera del 1966.
Tuttavia, ciò che stamani desidero svelare è una novità assoluta di cui nemmeno lui, Spielberg, è al corrente. Riguarda ciò che mi accadde dentro, nello schermo. Acquistai uno stato di invisibilità a casa, e uno di realtà, di esistenza fisica, sul palco del Teatro Mariinskij, dove vengo accolta dal Corpo di Ballo. Qui sono spogliata dal maglione a dolce vita, liberata dai pantaloni di velluto marrò a coste larghe, persuasa a lasciare in un angolo, dietro le quinte, fra le corde i tiranti del sipario, gli stivaletti di nappa bordeaux, incalzata ad abbandonare nel camerino i calzettoni che mi arrivano al ginocchio. Il locale è illuminato a giorno alle pareti tanti specchi dalle larghe cornici dorate; ci sono alcune poltroncine di velluto rosso occupate da cappotti cappelli guanti sciarpe. Adesso sono aiutata ad indossare la calzamaglia, il tutù, una meraviglia di tulle bianco; la corolla di una margherita intorno al mio girovita, mentre la parrucchiera, che parla russo, mi scioglie la coda di cavallo scuotendo avvilita la testa che, tanto per cambiare, i capelli sono sporchi che noi, io e Rosi, il bagno ce lo facciamo una volta alla settimana, il sabato pomeriggio. Nella stessa vasca, nella stessa acqua. Che, a casa mia, non si va per il sottile. Bisogna sbrigarsi. Nel mentre che mi pettina e raccoglie i capelli sulla sommità della testa facendo sbocciare un tuppo che adesso ferma con decine di forcine, sono nere, in ferro smaltato e zigrinato, mi ragguaglia di sé. Magari mi dice di sua figlia del figlio, si lamenta del marito, non posso dirlo. Immagino che parlasse incurante del fatto che io non la comprendessi, ma perché le alleggerisse il cuore.
Infine un ballerino, alto, delicati i lineamenti, regale il portamento. Indossa un abito di raso bianco e argento. Preciso, delicato nei movimenti: le lancette di un orologio. E’ il coreografo. Mi consegna una scatola rettangolare, di cartone. Dentro, le ali.
Una ballerina un ballerino no, loro non ce l’hanno sulla schiena come la totalità delle creature dell’aria. No. Loro le ali ce le hanno ai piedi. Come Mercurio, il dio greco.
Dentro la scatola sta un paio di scarpette di raso, rosa, con una MERAVIGLIOSA PUNTA DI GESSO tagliata orizzontale. Le scarpette sembrano l’esoscheletro di uno scarabeo, ornate da un vento di stringhe. Che dirti, svenire non era il caso che la voglia di mettere quelle scarpette ai piedi, i miei, alza subito la febbre, induce al deliquio.
Sul parquet del Teatro Mariinskij il suono prodotto dal gesso dei miei piedi bambini, qualche anno dopo dei miei piedi adolescenti, che il miracolo del Lago dei Cigni alla tele si verifica ogni anno sotto Natale per tutto il decennio, è rimasto una forte emozione che custodisco con intenso senso di gratitudine. Saltare con le scarpette di gesso sul parquet di quel Teatro riedificato sulle ceneri del precedente, nel 1859, averci volato, mi ha lasciato un’eredità sconvolgente.
Oggi, ancora adesso, appena parte la Musica, qualunque sia ovunque io sia e con chiunque sia, lascio tutto, se sono in cucina le pentole sul fuoco senza togliermi il grembiule, volo. Sono diventata così capace che non ho bisogno nemmeno del tutù. E nemmeno delle scarpette con la punta di gesso. Faccio tutto da sola adesso e se sono in compagnia la felicità, indicibile.